A fine gennaio il computo dei suicidi in carcere ha raggiunto quota 13. In un mese. Con i primi giorni di febbraio siamo arrivati a 15. Una cifra spaventosa, a cui si aggiungono le morti di cui ancora si deve capire qualcosa in più. Si marcia a un ritmo che minaccia di polverizzare i numeri già agghiaccianti di due anni fa. In un puntuale articolo, Giuliano Foschini su Repubblica ha ricordato:
I numeri sono fuori controllo: nel 2022, anno nero dei suicidi, con 83 vittime, a gennaio i detenuti che si tolsero la vita furono sette. Lo scorso anno quattro, con 69 alla fine dell’anno.
Tredici suicidi al mese farebbero più di 150 in un anno. Una mattanza di vite che sono in custodia dello Stato.
Vite che si spengono in un inferno chiamato carcere di cui nessuno vuole sentire parlare. Si ammazzano tanti giovani, anche reclusi che hanno ancora pene brevi da scontare. Qui la situazione raccontata da Alessio Ribaudo (non trovo più link sul Corriere, pubblico quello di Ristretti orizzonti).
L’inferno chiamato carcere è anche quello del sovraffollamento con i suoi numeri vergognosi.
Al 31 dicembre 2023 nei 189 istituti penitenziari italiani, stando ai dati forniti dal Ministero di grazia e giustizia , a fronte di una capienza da 51.179 detenuti ne risultavano 60.166 fra cui 2.541 donne (con 20 figli in cella con loro). Solo negli ultimi tre mesi – dal 14 ottobre al 14 gennaio – l’aumento è stato di 1.196 presenze, quindi, quasi 400 al mese.
Nessuno vuole vedere, nessuno vuole sapere. Qui l’iniziativa di Roberto Giachetti e Rita Bernardini, di cui poco si è parlato: uno sciopero della fame organizzato da Nessuno tocchi Caino per dire basta a questa vergogna di Stato-
A tutto questo, sommessamente suggerisco all’onorevole Giachetti, che sempre meritoriamente si batte per i diritti degli ultimi degli ultimi sbracciandosi perché dell’orrore delle nostre carceri si parli, un’idea provocatoria nell’Italia in cui si continua a legiferare introducendo nuovi reati e aumentando le pene degli esistenti, pur sbandierando il vessillo di un ministro “garantista”, fin qui portatore solo di proclami. La provocazione è questa: una proposta di legge costituzionale che cancelli dalla nostra Carta le parole amnistia e indulto.
I Padri Costituenti contemplarono questi istituti di clemenza. Nel Paese della forca, quello in cui si è mostruosamente trasformato l’Italia nella sua metamorfosi avviata nel 1992, quelle parole non si possono nemmeno pronunciare. Neanche di fronte a questa strage, a questo quotidiano calpestio di dignità e umanità. No, nessuno ha il coraggio di pronunciare quelle due parole che ovviamente non sarebbero la risposta ma dovrebbero dovrebbero accompagnare una riforma che faccia uscire l’Italia dal panpenalismo carcerocentrico. E allora, usciamo dall’ambiguità. Abbiano il coraggio i nostri parlamentari di stracciare quel pezzo di Costituzione. Perché se non oggi quando amnistia e indulto dovrebbero avere diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento?