E ci lasciamo alle spalle un altro 23 maggio, condito dalla consueta retorica, nel dovuto ricordo dei martiri della strage mafiosa di Capaci.
Un’altra giornata a riempirsi la bocca di “Giovanni”.
Ora possiamo tornare alla quotidianità.
A dare credito a minchiatari di ogni sorta e alle loro strampalate bufale, più o meno imbeccate, magari imbastendoci processi monstre.
A privare della libertà indagati sulla base di indizi fragili e contradditori che poi in un processo si sciolgono come neve al sole.
A usare l’antimafia come clava di parte nell’agone politico per tracciare linee alla lavagna e scrivere i buoni e i cattivi, tutti ovviamente di una sola parrocchia.
A sostituire la cultura del diritto con la cultura del sospetto.
A tacciare di complicità col nemico chiunque metta in discussione i dogmi intoccabili di una certa idea di “giustizia”.
A fare, insomma, tutto il contrario di ciò che quello straordinario magistrato e uomo, Giovanni Falcone, fece nella sua vita. Insultandolo da morto come ignobilmente venne insultato da vivo.