Il lungo processo alla Trattativa si è chiuso questa settimana col sigillo della Cassazione. I carabinieri del Ros e Dell’Utri assolti perché il fatto non sussiste. Formula ancor più piena di quella dell’appello che li aveva mandati assolti perché il fatto non costituisce reato, ribaltando l’incredibile sentenza di condanna di primo grado.
Finisce come non poteva che finire un processo zoppo, sbilenco, costruito su indizi claudicanti che francamente avevano scarsissime chance di acquisire dignità di prova nel contraddittorio del giudizio (qui un sunto efficace).
E con ciò, sia chiaro, non intendo dire che quegli anni non presentino aspetti rimasti oscuri. Per come la vedo io, per capire cosa accadde in quella complessa stagione, è utile combinare due sentenze, quella che mandò assolti i carabinieri del Ros per il mancato arresto di Provenzano e quella d’appello del processo Trattativa. La prima mise nero su bianco che non si poteva provare o desumere un dolo nel voler favorire i mafiosi in quel mancato arresto, seppure, scrivevano i giudici, si fosse di fronte a scelte investigative inspiegabili (lì si parla di “colpevole sottovalutazione”, di “dubbi ” e di “zone d’ombra”). Le motivazioni della sentenza d’assoluzione in appello della trattativa tentavano di dare una chiave di lettura, laddove si ipotizzava esplicitamente – per farla semplice – che a un certo punto si fece una scelta, quella di picchiare duro sull’ala stragista lasciando così più campo a quella non stragista della mafia. (L’articolo qui linkato riporta con chiarezza e completezza i passaggi salienti della sentenza d’appello)
Ho sempre pensato che in quegli anni ci fu eccome qualcosa (il contatto con Vito Ciancimino è un fatto pacifico, storico e accertato), anche se la parola “trattativa” è forse infelice (quella, intesa come reato, non ci fu, la sentenza definitiva ormai c’è), parlerei più che altro di incroci pericolosi (o magari spericolati), quelli in cui nelle situazioni di emergenza certi apparati dello Stato che si muovono border line incappano spesso, basti pensare a cosa accadeva in certi Paesi di guerra quando gruppi terroristici sequestravano nostri connazionali (qualcuno pensa che davvero non ‘trattavamo’ con i criminali lì?).
Ho sempre avuto dubbi, così come il professore Giovanni Fiandaca bersaglio in questi anni di indecenti e nauseabondi attacchi, sul fatto che questo qualcosa costituisse un reato. E ho sempre avuto la quasi certezza che pure se di reato si fosse trattato, e non credo che in sé lo fu, dimostrarlo in giudizio formando la prova così come il diritto pretende, sarebbe stato impossibile.
E’ finita così, come doveva finire. Era materiale per libri (uno l’ho scritto anche io, scegliendo però di fare un romanzo che giocasse tra la realtà e la fantasia), lo hanno fatto diventare oggetto di un processo penale. E sono andati a sbattere.
Qualcuno ha detto a caldo che molto meglio sarebbe stato per affrontare quei fatti utilizzare il più appropriato strumento della commissione parlamentare d’inchiesta . Sono assolutamente d’accordo. Ma quanto è accaduto a Palermo in questi anni è stato dal mio punto di vista anche un sintomo, uno dei tanti, della malattia costituzionale di questo Paese, di come una parte della magistratura abbia deciso di interpretare un altro ruolo in commedia, quello dei riscrittori della storia, dei moralizzatori, dei “giustizieri” (per dirla alla Sabino Cassese). Ma se questo è potuto accadere è anche perché la politica ha deciso di delegare alla magistratura requirente i propri doveri, ingigantendo quel potere a proprio scapito. Perché mai una commissione parlamentare d’inchiesta se ci pensano i pm di Palermo e i loro aedi nelle redazioni dei giornali? E così è stato. Peccato, perché altro di quegli anni sarebbe potuto emergere, forse, ma è rimasto sotto la sabbia, mentre l’attenzione era monopolizzata dai mirabolanti racconti di Massimo Ciancimino.
Ps Di tutto questo, restano, almeno, le belle carriere dei magistrati che a questo processo hanno lavorato. Il deputato Enrico Costa le ha riassunte così, in un tweet.