Riaccendono il dibattito in Sicilia le parole di Alfredo Morvillo, magistrato n pensione nonché fratello di Francesca, magistrato e moglie di Giovanni Falcone uccisa nella strage di Capaci del 23 maggio di trent’anni fa. Durante la presentazione di un libro di Felice Cavallaro dedicato alla sorella, Morvillo ha lamentato come a Palermo in politica pesino ancora personaggi e ambienti legati alla mafia. “C’è chi attualmente strizza l’occhio a personaggi condannati per mafia. C’è una Palermo che gli va dietro, se li contende e li sostiene”, ha detto Morvillo.
L’ex magistrato non ha fatto nomi. Qualcuno però si è riconosciuto. D’altronde, altri magistrati si erano espressi pubblicamente in modo analogo, dopo le cronache politiche che hanno raccontato il ruolo attivo nella campagna verso le amministrative di Palermo di Totò Cuffaro, ex presidente della Regione condannato per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra e Marcello Dell’Utri, condannato per concorso esterno in mafia. Entrambi hanno scontato la propria pena. E Cuffaro, si diceva, ha parlato apertamente dopo le frasi di Morvillo (qui le parole del magistrato in pensione) rivendicando il suo diritto a svolgere attività politica dopo aver estinto il suo debito con lo Stato. Cuffaro dice di ” di avere il diritto costituzionalmente riconosciutomi e forse anche il dovere di vivere la mia vita da libero e coltivare il mio impegno politico e sociale dopo avere pagato i miei errori con grande sofferenza” (qui le sue parole integrali).
Condivide invece le parole di Morvillo un altro ex magistrato, Giuseppe Di Lello, che lavorò a fianco di Falcone e Borsellino nei terribili anni in cui la mafia insanguinò Palermo. Di Lello sottolinea la peculiarità del reato di mafia nel suo commento.
Eppure c’è un fratello di vittima di mafia che è impegnato in politica proprio a fianco di Cuffaro. Si chiama Andrea Piazza, è fratello di Emanuele, vittima di lupara bianca. E tra le altre cose ricorda come la vicenda processuale di Cuffaro fu controversa (l’aggravante mafiosa non fu riconosciuta in primo grado, quando il governatore fu condannato per favoreggiamento semplice, mentre diversamente decisero i giudici in appello; e anche in Cassazione tra procura e corte vi fu una valutazione discordante). Qui le sue parole.
Il tema è assolutamente delicato. Nel dibattito sui social sotto traccia si intravede una certa idea del fine pena mai a prescindere che in Italia certi ambienti avvertono come conseguenza accettabile delle condanne penali. Ma di tale primitivo e brutale atteggiamento non è corretto sospettare magistrati che ben conoscono il diritto. Il tema qui non è quello del “poter fare” – e tutto ciò che il diritto espressamente non vieta a un condannato, questi ha senza dubbio il diritto di poterlo fare, piaccia o meno – quanto quello dell’opportunità, tanto più in una terra che ha pagato un tributo di sangue e di vite senza pari e che ancora sconta gli effetti nefasti della presenza della mafia. Ma l’opportunità è un concetto soggettivo, che ciascuno declina secondo sensibilità e valutazioni diverse.
Claudio Fava, deputato regionale di opposizione e figlio di vittima di mafia, la pone così, riferendosi in particolare a Del’Utri: un condannato, dice, ha diritto a dare consigli, sbaglia il rappresentante delle Istituzioni che va a chiederglieli.
Il dibattito resta aperto.